Sembra strano, soprattutto in una fase in cui si parla di mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ma anche in Italia esiste il fenomeno del labour hoarding per i lavoratori inutilizzati. Ecco cos’è.

Labour hoarding: la portata del fenomeno

Il fenomeno del labour hoarding è stato segnalato in tempi non sospetti dall’Unione Europea, che ha registrato un numero crescente di lavoratori inutilizzati nelle aziende. 

Il labour hoarding è la pratica con cui un‘azienda sceglie di mantenere i dipendenti durante una recessione, piuttosto che licenziarli. Lo fanno anche se influirà sui profitti e potrebbe non avere senso dal punto di vista finanziario a breve termine. Piuttosto, è una strategia a lungo termine utilizzata per evitare i costi di dover riassumere le persone una volta che l’economia torna a risalire.

Ovviamente, il mantenimento dei livelli occupazionali, nel labour hoarding, si traduce talvolta in:

  • riduzione dell’orario di lavoro e delle mansioni
  • sottodimensionamento delle responsabilità

Strumenti per non avere lavoratori inutilizzati

Il termine “lavoratori inutilizzati” è, senza dubbio, forte. E certamente non corrisponde totalmente al vero, perché non si può pensare di trovare nei contesti aziendali persone senza un impegno.

È più la prospettiva del termine che deve essere analizzata, e cioè: un lavoratore inutilizzato è colui che:

  • non si forma e non si aggiorna
  • non apporta miglioramenti al processo produttivo
  • viene progressivamente escluso dal contesto aziendale

Come risolvere questa situazione? Con dei percorsi di upskilling e reskilling destinati proprio a questi lavoratori, e che, ovviamente, per le aziende non abbiano costi onerosi.

Le opportunità sono tante al riguardo: dal Fondo Nuove Competenze ai tanti avvisi dei fondi interprofessionali che consentono percorsi di formazione aziendale totalmente finanziati. 

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